Covid, licenziata al rientro dalle ferie all’estero: la sentenza.
(Tribunale Ordinario di Trento – Ordinanza n. 496 del 21.012021)
Una sentenza del Tribunale di Trento che sancisce la possibilità di essere licenziati a causa dell’isolamento domiciliare dopo il rientro dalle ferie.
La sentenza del Tribunale di Trento riguarda una lavoratrice che aveva deciso di trascorrere le vacanze in Albania, consapevole che la scelta di passare le ferie all’estero avrebbe comportato al suo rimpatrio, l’isolamento fiduciario a casa per 14 giorni.
La dipendente era già dunque a conoscenza del fatto, o avrebbe dovuto esserlo, che non avrebbe potuto riprendere l’attività alla data concordata con il datore di lavoro. Il giudice ha per questo classificato il periodo di quarantena come assenza ingiustificata e ritenuto quindi la condotta passibile di licenziamento.
A giudizio del Tribunale, la protagonista della vicenda avrebbe dovuto scegliere con maggiore criterio la destinazione delle sue vacanze, compiendo anche un sacrificio sulla propria decisione, alla luce delle conseguenze che avrebbe comportato per la propria occupazione.
Un compromesso che, ancora il Tribunale di Trento, ritiene molto più accettabile rispetto alle restrizione della libertà di movimento personale e del godimento di alcuni diritti civili che ha dovuto subito l’intera popolazione in questo ultimo anno.
Con questa sentenza il giudice richiama al senso di responsabilità, in particolar modo in una situazione di emergenza, implicito tra le parti in un rapporto di lavoro, nella quale non rientra la scelta di programmare delle vacanze all’estero, già sapendo che al rientro non si potrà tornare al lavoro per altri 14 giorni.
Una vicenda che sta facendo discute in bilico tra diritti e doveri, dove i giudici hanno ritenuto il licenziamento legittimo non solo nella prolungata assenza della lavoratrice ma anche nella noncuranza con la quale la dipendente ha gestito l’intera vicenda. Certamente un richiamo ad agire in buona fede e alla coscienza di ciascuno, in un momento storico in cui il senso di collettività ha un valore ancora più ampio. Quanto statuito appare come un monito trasversale, perché le esigenze di sanità pubblica hanno imposto a tutta la popolazione sacrifici ben più gravi, come la limitazione temporanea della libertà di movimento personale e del godimento di alcuni diritti civili. La negligenza è stata giudicata priva di giustificazione. Un proclamo severo, ma che ci riporta al dovere prima del diritto, equilibrio di non facile argomentazione populista, ma che trova il suo fondamento in un momento storico complesso in cui il bene individuale non si sposa con quello della collettività.
Nullo il recesso irrogato in violazione del divieto di licenziamento per Covid-19.
(Tribunale di Mantova, sentenza n.112 del 11.11.2020)
Con la sentenza n. 112 del 11.11.2020, il Tribunale di Manto- va afferma che deve essere dichiarato nullo il recesso per g.m.o. irrogato in violazione del divieto generalizzato di licenziamento introdotto in pendenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19).
La lavoratrice, commessa presso un negozio di abbigliamento, impugna giudizialmente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogatole, in data 09.06.2020, per chiusura del punto vendita presso il quale era adibita.
A fondamento della predetta domanda, la medesima deduce la nullità del recesso, in quanto intimato in violazione del generalizzato divieto di licenziamento – in pendenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 – introdotto dall’art. 46 del c.d. Decreto Cura Italia.
Il Tribunale di Mantova rileva, preliminarmente, che il divieto generalizzato di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo è stato introdotto dall’art. 46 del D.L. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia) sino al 17 maggio 2020, per poi essere prorogato, dapprima, dal D.L. 34/2020 (c.d. Decreto Rilancio) sino al 17 agosto 2020 e, successivamente, dal D.L. 104/2020 (c.d. Decreto Agosto) fino, praticamente, a tutto il 2020.
Secondo il Giudice, si tratta non solo di una tutela temporanea dei rapporti per salvaguardare la stabilità del sistema economico, ma anche di una misura politico-economica del mercato del lavoro collegata ad esigenze di ordine pubblico.
Per la sentenza, ne consegue il carattere imperativo del blocco dei licenziamenti, che laddove violato può avere come unica conseguenza la declaratoria di nullità del recesso ed il diritto del dipendente (ex art. 18, comma 1, della L. 300/1970 o ex art. 2 del D.Lgs. 23/2015) ad essere reintegrato nel proprio posto di lavoro.
Su tali presupposti, il Tribunale di Mantova accoglie il ricorso della lavoratrice, dichiarando nullo il recesso irrogatole e disponendo la reintegra della stessa. Il Tribunale di Mantova ha pertanto accolto il ricorso e per l’effetto ha dichiarato nullo il recesso, condannando la società alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché al pagamento in favore della stessa di una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione.
Un tema piuttosto dibattuto che apre svariate possibili discussioni. Lo spostamento del lavoratore in un’unita produttiva diversa ove possibile, può evitare il licenziamento dell’addetto. In base all’articolo 2103 c.c. il trasferimento del dipendente può essere disposto per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. In caso di chiusura sono escluse dal campo di applicazione dell’eccezione le imprese individuali e pertanto queste ultime continuerebbero a soggiacere al divieto di licenziamento, anche in ipotesi di liquidazione. Se così fosse, non si comprenderebbe il motivo di differenziare l’attività societaria da quella individuale, stante il requisito cardine della norma, ovvero che l’attività cessi definitivamente senza continuazione della stessa, nemmeno parziale. È tuttavia chiaro che la chiusura di una unità produttiva di per sé non porta alla sospensione del blocco del licenziamento. Tuttavia le incertezze sono veramente tante e sarebbe davvero poco sensato confidare sulla capacità del mercato del lavoro di trovare in via autonoma un equilibrio.
Illegittimo il licenziamento del dirigente durante la pandemia
(Tribunale di Roma, Ordinanza 26 febbraio 2021 del 3 Marzo 2021)
Il Tribunale di Roma ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un dirigente avvenuto durante il periodo di blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo previsto nella decretazione di urgenza e prorogato fino al prossimo 31 marzo dalla legge n. 178/2020. Il Tribunale ha ritenuto di fornire una lettura della norma che fa riferimento, per il blocco, all’art. 3 della legge n. 604/1966 (che, come è noto, non si applica al personale con qualifica dirigenziale), offrendo una interpretazione costituzionalmente orientata alla luce dell’art. 3 della Costituzione, affermando che per il dirigente il concetto di “giustificatezza” di origine contrattuale è perfettamente equiparabile alla motivazione economica sottesa al giustificato motivo oggettivo previsto per l’altro personale dipendente dal predetto art. 3 della legge n. 604/1966.
Il Tribunale di Roma rileva, preliminarmente, che la normativa emergenziale che ha introdotto il blocco dei licenziamenti per motivi oggettivi durante la pandemia da COVID-19, deve essere applicata anche ai dirigenti. Per il Giudice la ratio del predetto blocco è ravvisabile nell’esigenza di ordine pubblico di evitare, almeno per ora, che le conseguenze economiche nefaste derivanti dall’emergenza sanitaria si traducano nell’immediata soppressione di posti di lavoro. Detta esigenza, comune anche ai dirigenti, risulta ispirata ad un criterio di solidarietà sociale, ex artt. 2 e 4 della Cost., che comporta una compressione temporanea delle libertà imprenditoriali ugualmente tutelate in Costituzione dall’art. 41.
Licenziamento del lavoratore che si rifiuta di servire un cliente senza mascherina.
(Tribunale di Arezzo, Sentenza n. 9 del 13 gennaio 2021 del 10 febbraio 2021)
Il Tribunale di Arezzo ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore che si era rifiutato di svolgere il proprio lavoro di cassiere avanti ad un cliente che, seppur richiamato, aveva rifiutato di indossare la mascherina anti Covid. Il datore di lavoro aveva proceduto al licenziamento dichiarando che il dipendente aveva disatteso le indicazioni aziendali e danneggiato gravemente l’immagine dell’impresa. Il Tribunale ha ritenuto illegittimo il licenziamento affermando che l’azione del dipendente non era altro che l’esercizio del diritto a svolgere la prestazione di lavoro in sicurezza e che, di conseguenza, non è stato violato alcun obbligo di natura contrattuale.
Con la sentenza n. 9/2021, il Tribunale di Arezzo è quindi entrato nel merito del licenziamento per giusta causa. Il licenziamento del lavoratore che rifiuta di servire un cliente senza mascherina non integra la violazione del dovere di fedeltà né, tantomeno, la giusta causa di rescissione del contratto. Il comportamento avuto dal dipendente quindi non è stato considerato dal giudice così lesivo e grave e come idoneo a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro. Passaggio significativo che apre il tema delicatissimo della fiducia tra le parti e che in un contesto emergenziale andrebbe ampliata nel suo significato anche come una scelta di noncuranza e disattenzione verso le indicazioni aziendali previste nel periodo Covid, avendo così potenzialmente “danneggiato gravemente l’immagine aziendale”.
Licenziamento: sì al controllo datoriale della prestazione. Per la cassazione (sentenza n. 21888/2020) è legittimo che per tali controlli l’imprenditore usi sia personale interno sia soggetti esterni, come gli investigatori privati (questi ultimi per l’accertamento di eventuali comportamenti illeciti).
(Cass. Civile – Sentenza 5 marzo – 9 ottobre 2020, n. 21888)
Sono legittimi i controlli dell’imprenditore che hanno per oggetto il corretto adempimento della prestazione da parte del lavoratore.
E’ pertanto legittimo che un imprenditore deleghi controlli a personale interno, ricorrendo però a soggetti esterni, quali gli investigatori privati, nel caso di comportamenti illeciti (per fatti aventi valenza penale, è bene ricordarlo, è altresì possibile il ricorso anche a telecamere occulte, la cui utilizzazione per legge deve essere sempre affidata a soggetti terzi, quali sono appunto le agenzia investigative.)
Il licenziamento disciplinare, intimato a seguito di nume- rose condotte negligenti e conseguenti disservizi, è proporzionato e legittimo.
La portata degli articoli 2 (che disciplina il ricorso alle guardie giurate) e 3 dello Statuto dei lavoratori – che delimitano la sfera di intervento di persone preposte dal datore a difesa dei propri interessi, per scopo di tutela del patrimonio aziendale e di vigilanza dell’attività lavorativa – non preclude all’imprenditore/datore di lavoro di controllare l’adempimento delle prestazioni lavorative, direttamente o mediante elementi della sua organizzazione gerarchica (che i lavoratori ben conoscono), e di ricorrere altresì alla collaborazione di soggetti come gli investigatori privati. Quanto sopra vale, per la Suprema Corte, indipendentemente dalle modalità del controllo che può anche essere esercitato in modo occulto, soprattutto quando ciò sia giustificato da precedenti condotte non palesemente inadempienti del lavoratore sospetto.
Tale pronuncia rimarca l’ambito di operatività dell’esercizio del potere di controllo da parte del datore di lavoro che, compete allo stesso insieme al potere direttivo e a quello sanzionatorio. Un potere che può essere ed è esercitato avendo per oggetto il corretto adempimento della prestazione lavorativa.
Se il datore di lavoro abbia notizia di condotte del dipendente che possano integrare non solo violazione dei doveri nascenti dal contratto, ma anche illeciti penali, è legittimato a incaricare un investigatore privato che li documenti, anche con video riprese, che potranno essere utilizzate come prova della giusta causa di recesso.
Lo Statuto dei lavoratori stabilisce il divieto di controllo occulto dell’attività svolta. Tuttavia tale divieto non opera al di fuori dei locali aziendali ove quindi è possibile ricorrere ad investigatori privati per verificare eventuali comportamenti che possano integrare condotte illecite di natura civile, amministrativa o penale e non solo violazione degli obblighi contrattualmente assunti (si pensi a un dipendente di una banca che pratica lo strozzinaggio o a un bidello che spaccia droga). La giurisprudenza ha ormai sdoganato le attività investigative private. Pertanto non è violazione della privacy dei lavoratori il pedinamento per produrre all’azienda le foto o i filmati con la prova di eventuali irregolarità.