Con la suddetta sentenza i giudici di legittimità hanno messo in evidenza un altro pericolo correlato alla detenzione e all’impiego di criptovalute; ad avviso della Corte, infatti, i bitcoin e, in generale le monete virtuali, rientrerebbero nel novero di quegli strumenti finanziari (a carattere speculativo) idonei ad integrare il reato di autoriciclaggio. Nel caso preso in esame si trattava di disposizioni on line su un conto estero, senza mai essere riscosse, per il successivo acquisto di valuta virtuale il cui impiego finale risultava imprecisato; ponendo così in essere un investimento dei profitti illeciti in operazioni di natura finanziaria, idonee a ostacolare la tracciabilità e la ricostruzione dell’origine delittuosa del denaro. Le criptovalute possono essere ricondotte nell’ambito delle attività speculative in quanto l’acquisto implica il tentativo di raggiungere un utile anche assumendosi il rischio di considerevoli perdite.

 

COMMENTO
a cura di Marilena Guglielmetti – Investigatore Criminologo

Nel caso analizzato il reato di autoriciclaggio sarebbe venuto in rilievo a seguito dell’utilizzo del denaro (proveniente dalla commissione di truffe) per l’acquisto di criptovalute. Nei primi gradi di giudizio, i giudici hanno assunto che il sistema di acquisto di bitcoin si presta ad agevolare condotte illecite, poichè è possibile garantire un alto grado di anonimato (sistema c.d. permissionless), senza previsione di alcun controllo sull’ingresso di nuovi “nodi” e sulla provenienza del denaro convertito.

È ormai noto infatti come l’impiego delle criptovalute nel darkweb, per le loro peculiari caratteristiche, attraverso l’uso di tecniche crittografiche avanzate, garantiscono un elevato livello di privacy sia in relazione alla persona dell’utente sia in relazione all’oggetto delle compravendite.

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