Barbara Sartori
Avvocato e Partner CBA
Recenti studi hanno evidenziato come i consumatori, specie quelli più giovani, sempre più attenti e consapevoli, sono particolarmente sensibili alle tematiche ambientali, tanto da essere propensi a spendere di più per acquistare prodotti provenienti da aziende che attuino serie e credibili azioni di tutela dell’ambiente.
Secondo il “Global Sustainability Report: Sustainability matters, but does it sells?”, redatto da McKinsey&Company “circa il 70% dei consumatori preferisce scegliere un prodotto a ridotto impatto ambientale rispetto a uno non ecosostenibile, pur vedendo il prezzo salire del 5-10% rispetto alla media dello stesso prodotto non etichettato come “eco-friendly”.
La comunicazione green costituisce quindi un importante fattore di competitività, in grado di orientare le scelte di acquisto del consumatore, tanto che negli ultimi anni molte aziende hanno attuato strategie di “green marketing”, finalizzate a puntare l’attenzione del consumatore su determinate qualità ambientaliste del prodotto quali, ad esempio, l’assenza di sostanze inquinanti, il contenuto di materiale riciclato, la non tossicità, biodegradabilità.
La propensione verso prodotti green, tuttavia, non si traduce proporzionalmente in un incremento dei relativi acquisti, complice una tendenziale sfiducia generata dal proliferare di green claim vaghi, fumosi e non verificabili.
Secondo uno studio condotto nel 2020 dalla Commissione Europea il 53% delle asserzioni ambientali fornisce informazioni vaghe, ingannevoli o infondate e il 40 % non è comprovato.
Con l’obiettivo di rendere il marketing più trasparente e favorire al contempo scelte d’acquisto più consapevoli , il 17 gennaio 2024 il Parlamento Europeo ha dato il via libera definitivo a una Direttiva che, tra altre disposizioni, vieterà l’uso di indicazioni ambientali generiche come ad esempio “eco”, “verde”, “biodegradabile” o “carbon neutral” in assenza di prove oggettive della loro fondatezza. La nuova Direttiva, una volta approvata dal Consiglio dell’Unione Europea, verrà pubblicata nella Gazzetta ufficiale e gli Stati membri avranno 24 mesi di tempo per recepirla nel diritto nazionale.
In attesa che venga completato l’iter normativo europeo, diamo uno sguardo all’impianto normativo attualmente vigente all’interno del nostro ordimamento nazionali.
Promuovere determinati prodotti, enfatizzandone il carattere ecosostenibile senza che ciò corrisponda al vero o senza che ciò possa essere adeguatamente supportato da sufficienti evidenze scientifiche (il cd greewashing) integra una pratica commerciale scorretta e ingannevole ai sensi degli artt. 20, 21 e 22 del codice del consumo, assoggettata alla competenza dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM), nella misura in cui è idonea a condizionare apprezzabilmente le scelte d’acquisto dei consumatori, facendo loro assumere un comportamento che, altrimenti, non avrebbe tenuto, o avrebbe assunto con modalità differenti.
Tra i casi decisi dalla AGCM, di particolare rilevanza è il provvedimento n. 28060 del 20 dicembre 2019, avente ad oggetto alcuni claim ambientali utilizzati da una nota società petrolifera per pubblicizzare una nuova tipologia diesel, enfatizzandone i pregi in termini di risparmio dei consumi, di riduzioni delle emissioni gassose e di positivo impatto ambientale.
In quell’occasione l’Autorità Garante ha avuto modo di chiarire che le dichiarazioni ambientali “devono riportare i vantaggi ambientali del prodotto in modo puntuale e non ambiguo, essere scientificamente verificabili e, infine, devono essere comunicati in modo corretto”, precisando che “un corretto claim ambientale dovrebbe veicolare informazioni adeguatamente documentate, scientificamente ‘verificabili’ e circoscritte a specifici aspetti verificabili in chiave comparativa rispetto a prodotti omogenei”.
Analoghi principi sono stati espressi anche in altre pronunce dell’Autorità con riferimento all’utilizzo di claim ambientali generici quali “sostenibile”, “biodegradabile”, “compostabile”, come ad esempio in un caso dei pannolini per neonati pubblicizzati come “biodegradabili e compostabili” ma che a seguito dell’istruttoria erano risultati non compostabili per la presenza di polimeri non biodegradabili, o nel caso dei sacchetti per la spesa dichiarati “100% biodegradabili”, ma che a seguito di apposita verifica tecnica erano risultati biodegradabili solo in tempi estremamente lunghi.
Sotto altro profilo il greenwashing, oltre a costituire pratica commerciale scorretta, lesiva quindi degli interessi dei consumatori, può configurare anche condotta di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598 cc co 3, laddove attraverso la veicolazione di messaggi ambientalisti non veritieri o comunque generici e non verificabili, conduca l’impresa, che ha veicolato tali messaggi, ad acquisire illecitamente un vantaggio competitivo, sottraendo quote di mercato ai concorrenti.
Il primo caso di accertamento (seppur in sede cautelare) da parte della giurisdizione ordinaria, di una condotta di concorrenza sleale per diffusione di messaggi ambientalisti è stata pronunciata dal Tribunale di Gorizia il 25 novembre 2021. Il Giudice di prime cure ha ritenuto che mediante l’utilizzo del claim “ecosostenibile” e “riciclabile al 100%” nella promozione della propria microfibra, la società resistente veicolasse l’idea al pubblico di essere una realtà fortemente improntata al rispetto della sostenibilità ambientale, senza che tuttavia vi fosse un fondamento dimostrabile, e anzi in aperta contraddizione con alcune dichiarazioni pubblicate nel proprio sito web. A onor del vero, l’ordinanza che sulla base di tali considerazioni aveva disposto l’inibitoria, è stata ribaltata in sede di reclamo, per assenza delle gravi ragioni d’urgenza, impregiudicate le valutazioni di cui sopra in ordine all’illiceità della condotta esaminata.
La pronuncia in esame ha l’ulteriore pregio di esaminare ai fini del giudizio le decisioni assunte dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP), specie nei 10 anni successivi all’introduzione nel relativo Codice dell’attuale art 12, ai sensi del quale “La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.
Lo IAP è stato, infatti, sin dalla fine degli anni ’80, particolarmente attivo nel censurare le iniziative pubblicitarie imperniate su green claim ingannevoli, ribadendo la necessità che il vanto ambientale non sia generico e consenta di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzati si riferisca.
In particolare, con la pronuncia n.58/1989 lo IAP ha ritenuto decettivo il claim “gas ecologico che rispetta la natura” per la pubblicizzazione di uno spray in cui vi era traccia, seppur in misura minore rispetto ai prodotti concorrenti, della componente CFC (clorofluorocarburo). In tale contesto l’Autorità ha dichiarato che “sottolineare il carattere ecologico del prodotto nell’attuale momento storico, nel quale il valore ecologico riscuote la generalità dei consensi, quasi come un metavalore che si pone oltre le singole posizioni politiche e ideologiche, vuol dire volersi appropriare di una connotazione altamente positiva, che non appare giustificata se applicata a un prodotto solo modestamente nocivo”.
Nel medesimo solco si pone la pronuncia n. 86/2008, nella quale l’Autorità ha dichiarato ingannevole il claim “eco-sostenibile al 100%” riferito a una bottiglia per acqua minerale in quanto tale affermazione esaltava solamente la fase di smaltimento della stessa che avveniva in modo pienamente ecosostenibile, senza tuttavia considerare l’impatto dell’intero ciclo di vita del prodotto e, in particolare, del procedimento produttivo della bottiglia pubblicizzata che comportava un certo consumo di componenti fossili e acqua con rilascio di emissioni inquinanti.
Ancora, con la pronuncia n. 17/2013, il Giurì ha dichiarato ingannevole la pubblicità di alcuni detersivi dichiarati “completamente degradabili” poiché tale caratteristica risultava veritiera solo con riguardo alle materie prime vegetali e non anche alle confezioni e agli ulteriori additivi contenuti nel prodotto.
Più di recente, con l’ingiunzione n. 30/2015, il Giurì ha contestato la pubblicità “Finalmente nei supermercati il vero detergente biologico, molto più di ecologico”, “100% di forza pulente naturale” per improprio utilizzo del termine “biologico”. Il prodotto pubblicizzato, infatti, benché contenesse una componente con una particolare proprietà lavante in grado di ridurre la quantità di prodotto necessaria e di ridurre conseguentemente l’impatto ambientale, non conteneva alcun ingrediente biologico e pertanto, il vanto ambientale non risultava veritiero.
Sin qui abbiamo esaminato i profili di illiceità civile del “greenwashing”, da un lato, in termini di violazione dei diritti dei consumatori, dall’altro lato, in termini di violazione delle regole poste a fondamento di una concorrenza leale tra imprese. Non va tuttavia dimenticato come nei casi più gravi il fenomeno del greenwashing può essere fonte anche di responsabilità penale, a titolo di truffa ai sensi dell’art. 640 c.p., o a titolo di frode nell’esercizio del commercio ai sensi dell’art. 515 c.p., reato quest’ultimo suscettibile di responsabilità penale a
Si profila pertanto sempre più strategica la collaborazione tra imprese e professionisti esperti di diritto della comunicazione e della pubblicità, nell’obiettivo condiviso di attuare campagne pubblicitarie efficaci, trasparenti e conformi all’articolato e rigoroso quadro normativo che si va delineando.