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Le indagini difensive nel processo penale per infortunio sul lavoro (a cura di Avv. Gian Filippo Schiaffino)
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Le indagini difensive nel processo penale per infortunio sul lavoro (a cura di Avv. Gian Filippo Schiaffino)

 

Avv. Gian Filippo Schiaffino
Partner fondatore AMTF Avvocati

 


La violazione degli artt. 589 e 590 c.p. nei luoghi di lavoro. I poteri della difesa nella fase preprocessuale e a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415 bis c.p.p. 3. Le strategie difensive dell’azienda: l’importanza della predisposizione del modello di organizzazione e gestione ai sensi della normativa 231.

  1. La violazione degli artt. 589 e 590 c.p. nei luoghi di lavoro

La vita e l’integrità fisica sono beni cui il legislatore riconosce, all’interno dell’ordinamento penale, la massima tutela, giungendo finanche a potenziarla nell’ambito dei contesti lavorativi.

L’art. 589 c.p., infatti, punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni “chiunque cagiona per colpa la morte di una persona” (art. 589 comma 1 c.p.) e con la pena della reclusione da due a sette anni se lo stesso fatto “è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro” (art. 589 comma 2 c.p.).

Sulla scorta della medesima ratio, l’art. 590 c.p., in materia di Lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme in materia infortunistica, prevede la pena della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 in caso di lesioni gravi, e la pena della reclusione da uno a tre anni in caso di lesioni gravissime (cornici edittali ben superiori rispetto alle ipotesi in cui le lesioni si verifichino al di fuori del contesto lavorativo e a prescindere dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni).

Il differente trattamento sanzionatorio deve ricollegarsi ad una duplice circostanza: il rilievo costituzionale attribuito al lavoro e la posizione di garanzia riconosciuta al datore di lavoro. In altri termini, la tutela “rafforzata” del lavoratore rappresenta l’effetto degli obblighi di vigilanza e di minimizzazione del rischio che fanno capo al datore di lavoro.

Si è soliti parlare di “minimizzazione” del rischio, e non di “esclusione”, in quanto qualsiasi attività produttiva comporta, ex se, un aumento del rischio: l’onere che incombe sui titolari delle posizioni di garanzia nel contesto lavorativo si risolve, dunque, nell’obbligo di diminuirlo, utilizzando standard di tutela parametrati sui progressi tecnologici e sulle competenze acquisiti nel settore[1].

  1. I poteri della difesa nella fase preprocessuale e a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini ex 415 bis c.p.p.

I procedimenti penali riguardanti infortuni sul lavoro (sia nell’ipotesi ex art. 589 c.p., sia nell’ipotesi ex art. 590 c.p.) pongono una serie di problematiche di estrema complessità che il professionista incaricato della difesa di un datore di lavoro cui vengano contestati detti reati si trova inevitabilmente ad affrontare. Devesi, infatti, evidenziare che il ruolo dell’avvocato assume connotati strategici sin dalle prime fasi di una situazione originata da un incidente nel luogo di lavoro che potrebbe, potenzialmente, giungere al vaglio del Giudice penale.

Imprescindibile attuazione del diritto alla prova e del contraddittorio nella formazione della stessa, la disciplina delle investigazioni difensive, disciplinata dagli artt. 327-bis e 391 ss. c.p.p., riveste un ruolo di rilievo primario nell’ambito delle facoltà attribuite al difensore. Come noto, nel tentativo di riequilibrare la posizione delle parti (i.e. accusa e difesa) nel processo penale, il legislatore ha infatti conferito al difensore la possibilità di svolgere indagini a tutela del proprio assistito. In particolare, anche in sintonia con l’art. 24 della Costituzione, che garantisce a ciascun cittadino l’inviolabile diritto di difesa, il legislatore ha riconosciuto al difensore dell’indagato, dell’imputato, della persona offesa o delle altre parti private, la facoltà di svolgere attività di indagine distinta e autonoma rispetto a quella effettuata dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, al fine di raccogliere dati e informazioni favorevoli al proprio assistito.

Anche nell’ambito degli infortuni sul lavoro, parallelamente alle indagini svolte dalla Procura a seguito della segnalazione all’ATS (Agenzia di Tutela della Salute) o al SPreSAL (Servizio Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro), anche la difesa può dunque assumere un ruolo di preminente rilievo, sia nella fase delle indagini, sia nella fase del giudizio vero e proprio.

Nello specifico, l’art. 391-nonies c.p.p. disciplina la possibilità di svolgere le cd. investigazioni preventive, estendendo i poteri attribuiti dall’art. 327–bis c.p.p. al difensore munito di apposito mandato “per l’eventualità che si instauri un procedimento penale”. Più in particolare, l’avvocato potrà conferire con persone informate sui fatti – come i soggetti che hanno assistito all’incidente – potendo anche delegare l’espletamento di specifiche attività a investigatori privati autorizzati o a consulenti tecnici. L’alto tecnicismo della materia, infatti, impone spesso il ricorso a professionisti altamente specializzati in grado di ricostruire con maggior rigore tecnico-scientifico la dinamica dei fatti.

In fase successiva, qualora all’indagato sia stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p., è evidente che anche l’attività difensiva dovrà essere più precisa e strutturata, avendo in tal caso il Pubblico Ministero concluso per la fondatezza della notizia di reato ed essendosi determinato a richiedere il rinvio a giudizio. Come noto, infatti, l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. contiene l’enunciazione del fatto contestato e, dunque, gli addebiti delittuosi mossi all’indagato. In tal caso le indagini investigative preventive comprenderanno tutte quelle attività volte a dimostrare che il datore di lavoro aveva adottato, nel caso di specie, tutte le misure antinfortunistiche idonee a prevenire l’evento verificatosi e che lo stesso è avvenuto in conseguenza di fattori del tutto avulsi dalla sfera di controllo del datore di lavoro, rispetto a cui non è pertanto configurabile alcuna forma di responsabilità. Detta attività, parametrata sugli elementi raccolti nell’enunciazione del fatto di cui all’art. 415 bis c.p.p., potrà consistere nell’audizione di persone informate sui fatti – le cui dichiarazioni vengono verbalizzate e documentate – nell’accesso a luoghi privati o non aperti al pubblico (previa autorizzazione del Giudice con decreto), nella richiesta di documenti alla Pubblica Amministrazione. Detta documentazione potrà essere poi portata all’attenzione dell’Autorità procedente già in fase di 415 bis c.p.p. al fine di dimostrare la correttezza dell’operato del datore di lavoro e la mancata integrazione del nesso di causalità tra le sue condotte e l’evento infortunistico.

È bene precisare al riguardo che la giurisprudenza è particolarmente rigorosa nel valutare il rispetto della normativa antinfortunistica e la sussistenza di misure idonee a prevenire l’evento infortunio; in linea generale, infatti, la posizione di garanzia del datore di lavoro ha un perimetro molto ampio, dovendosi concludere per una interruzione del nesso eziologico soltanto quando la condotta del lavoratore sia qualificabile in termini di “abnormità”[2].

  1. Le strategie difensive dell’azienda: l’importanza della predisposizione del modello di organizzazione e gestione ai sensi della normativa 231.

Il d.lgs. n. 123/2007 estende alla materia della prevenzione degli infortuni sul lavoro la disciplina della responsabilità da reato degli enti, già prevista per una serie di delitti dolosi dal d.lgs. n. 231/2001.

Ciò significa che il verificarsi di un evento infortunistico sul luogo di lavoro può determinare l’ascrizione di responsabilità penale in capo ad uno dei soggetti apicali all’interno dell’impresa. Ma quid iuris nei confronti dell’impresa stessa?

Come noto, l’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001 prevede la responsabilità dell’ente a fronte di reati commessi nel suo interesse o nel suo vantaggio:

a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;

  1. b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)[3].

Ebbene, il successivo art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 prevede una causa di esclusione della responsabilità dell’ente qualora lo stesso provi di avere adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi e di averlo correttamente sottoposto al controllo di un organismo di vigilanza all’uopo nominato (e che, pertanto, il reato sia stato commesso a seguito di un’elusione fraudolenta del modello stesso).

In questo caso l’attività del difensore può rilevare, ancora una volta, nella valutazione e nella raccolta delle procedure e dei protocolli esistenti in azienda in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. Non si dimentichi, infatti, che anche qualora l’ente non fosse dotato di un modello idoneo al momento del fatto, l’esistenza di procedure idonee può servire per dimostrare, nel corso di un eventuale giudizio, l’esistenza di un modello “di fatto” e agevolare, così, la produzione in giudizio del cd. “modello riparatore”, vale a dire l’adozione, da parte dell’ente, di un modello post-factum (adottato successivamente all’avvio del procedimento) che potrà valere ad escludere l’applicazione di sanzioni interdittive nell’ipotesi di una successiva condanna.

Appare in definitiva evidente che la previa identificazione e valutazione dei rischi, oltre alla verifica della correttezza delle procedure aziendali, sono tutte attività funzionali ad evitare la cristallizzazione di forme di responsabilità oggettiva in capo a chi riveste posizioni apicali nell’ambito dell’impresa.


[1] Sul punto, cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 26 ottobre 2021, n. 40002, secondo cui “l’obbligo di “ridurre al minimo” il rischio di infortuni sul lavoro (d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 71) impone al datore di lavoro di verificare e garantire la persistenza nel tempo dei requisiti di sicurezza delle attrezzature”.

[2] Sul tema, cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 13 ottobre 2022, n. 40337, secondo cui “la condotta del lavoratore è abnorme non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso, ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute e, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; cionondimeno, quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio e adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alla particolarità del lavoro”.

[3] Il comma 2 della medesima disposizione prevede, poi, che “l’ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi”. 

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