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Lo stress da “conflittualità lavorativa”: quali responsabilità per il datore di lavoro?
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Lo stress da “conflittualità lavorativa”: quali responsabilità per il datore di lavoro?

 

 

Avv. Andrea Morone
Partner – Co-Head of Employment di DWF (Italy)

 


La costruzione di un ambiente di lavoro positivo e sano è ormai diventato uno dei principali obiettivi che le aziende  perseguono tramite le cosiddette pratiche di “wellbeing”. Tali pratiche possono essere implementate attraverso una pluralità di strumenti, come, ad esempio,  una gestione dei tempi di svolgimento della prestazione lavorativa tale da favorire la conciliazione vita-lavoro,  iniziative che favoriscano la socializzazione fra i dipendenti ovvero anche il coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni che li riguardano, invitandoli a fornire suggerimenti sulle iniziative da adottare per soddisfare le loro esigenze. Si tratta di strumenti che se, da un lato, sono finalizzati al maggior benessere dei dipendenti, da un altro lato, si pongono anche l’obiettivo di accrescere la produttività e la competitività delle imprese.

La necessità di garantire condizioni lavorative quanto più sane e sicure possibili costituisce però anche un preciso obbligo per il datore di lavoro, e ciò per effetto del principio di carattere generale in base al quale lo stesso datore di lavoro è tenuto ad adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, servono a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (art. 2087 cod. civ.).

La centralità e la rilevanza di tale obbligo – e le relative conseguenze risarcitorie della sua mancata attuazione – sono di recente state ribadite in alcune pronunce giurisprudenziali, nelle quali si è ravvisato un inadempimento datoriale nelle ipotesi che configuravano una situazione di stress o di clima lavorativo stressogeno derivante da “conflittualità lavorativa”[1].

Va precisato che si tratta di situazioni che vanno distinte dal mobbing, il quale, com’è noto, si concretizza in una condotta sistemica e protratta nel tempo, che realizza, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro.

L’elemento di novità di tale orientamento è dato dal fatto che, per configurare la responsabilità datoriale, non è necessario che vi sia stato mobbing, essendo sufficiente “valutare ed accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere anche solo colposamente omesso di impedire che un ambiente di lavoro stressogeno provocasse un danno alla salute” del lavoratore.

Pertanto, la responsabilità datoriale per il danno alla salute lamentato dal dipendente può configurarsi anche laddove emerga che il datore di lavoro, nell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente lavorativo, abbia omesso di adottare tutte le misure idonee a prevenire e rimuovere situazioni in grado di generare condizioni di stress o di favorire l’istaurazione di un clima lavorativo teso, con le relative conseguenze pregiudizievoli per il personale coinvolto in siffatto genere di situazioni. E ciò, lo si ribadisce, anche in assenza di quelle condotte manifestamente vessatorie e persecutorie necessarie a integrare una vera e propria fattispecie di mobbing.

In questo modo, la giurisprudenza fa emergere una particolare connotazione dell’obbligo di sicurezza in capo al datore di lavoro, attribuendo   un’autonoma rilevanza alle situazioni in cui il “conflitto” tra dipendenti è tale da determinare conseguenze pregiudizievoli per l’integrità psico-fisica dei dipendenti medesimi.

Alla luce di tale orientamento, dunque, è configurabile una responsabilità datoriale in relazione ai contesti lavorativi connotati da continui liti e screzi, laddove il datore di lavoro non sia per tempo intervenuto al fine di prevenire e/o rimuovere tale clima conflittuale.  Si tratta, peraltro, di una responsabilità colposa di carattere omissivo, nell’ambito della quale l’eventuale inadempimento, così come la presenza e l’intensità dell’altrettanto eventuale dolo, possono al massimo incidere sul quantum del risarcimento dovuto al prestatore di lavoro.

In definitiva, dunque, si tratta di un orientamento che conferisce assoluta centralità ai temi dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente lavorativo, i quali devono essere finalizzati alla maggiore tutela possibile della salute fisica e mentale dei lavoratori anche relativamente ai predetti aspetti.

In ogni caso, perché si configuri la responsabilità datoriale per il danno alla salute lamentato dal singolo dipendente è comunque necessario che lo stesso provi la sussistenza di un danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale tra di esse, mentre il datore di lavoro, per escludere l’addebito, dovrà provare di avere adottato tutte le misure necessarie a prevenire ed impedire il clima di stress che si assume avere determinato il danno medesimo.

Pertanto, il datore di lavoro che voglia prevenire contenziosi di questo tipo e, al contempo, raccogliere elementi utili alla propria difesa nell’ambito di un eventuale giudizio, dovrà adottare tutte le soluzioni necessarie ai predetti fini, esercitando i poteri direttivi ed organizzativi che gli sono propri. In tale contesto, ad esempio, un ruolo significativo va riconosciuto al potere disciplinare, che dovrà prontamente essere esercitato per reprimere ogni eventuale condotta violenta o comunque litigiosa che venga posta in essere non solo tra i superiori gerarchici e i sottoposti, ma anche tra colleghi di pari livello, così da rimarcare la totale estraneità dell’azienda rispetto a condotte di questo tipo. Peraltro, a seguito dell’entrata in vigore della disciplina del whistleblowing – che ha reso obbligatoria, seppure solo per talune tipologie di imprese, l’istituzione di specifici canali di segnalazione di condotte illecite -, le aziende hanno a disposizione uno strumento organizzativo ulteriore per dare attuazione al predetto obbligo, raccogliendo anche tramite il predetto canale eventuali segnalazioni di condotte a rischio, che andranno accuratamente valutate e gestite, adottando gli opportuni provvedimenti.

[1] Si v., in particolare, Cass. 19 gennaio 2024, n. 2084; 31 gennaio 2024, n. 2870; 12 febbraio 2024, n. 3791; 12 febbraio 2024, n. 3822; 12 febbraio 2024, n. 3856; 16 febbraio 2024, n. 4279.

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